martedì 5 giugno 2018

Inquinata, privatizzata, depredata

Di razzismo si muore!


 
Sacko Soumayla – anni 29, migrante dal Mali, bracciante agricolo, organizzatore sindacale dell’ Usb che così lo descrive: "Un ragazzo da sempre in prima fila nelle lotte sindacali per difendere i diritti dei braccianti agricoli sfruttati nella Piana di Gioia Tauro e costretti a vivere in condizioni fatiscenti nella tendopoli di San Ferdinando (Rc)”.
La sua morte avviene a poche ore dalle orrende parole del nuovo ministro dell’interno Matteo Salvini, che parlando nella padana Vicenza ha detto;  “Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia, preparatevi a fare le valigie…”.
Soumayla Sacko, nato in Mali, ucciso a fucilate a Rosarno, era venuto in Italia per cercare un po' di futuro, per sopravvivere a stento nella tendopoli di San Ferdinando, sul golfo bello e disperato di Gioia Tauro, Calabria, Italia.
Qui i salari sono da fame, le condizioni di vita al di sotto della dignità, nessuna tutela della salute e della sicurezza, rapporti di lavoro violenti. Una condizione di illegalità diffusa che viene tollerata e anche protetta. 
Soumayla Sacko faceva parte di quei giovani lavoratori, con un’età media di 29 anni, provenienti dall’Africa sub-sahariana occidentale (soprattutto Mali, Senegal, Gambia, Guinea Conakry e Costa d’Avorio). Soumayla era anche un militante sindacale dell’USB e lo hanno ammazzato per un pezzo di lamiera abbandonato che doveva servire per costruire una baracca per i suoi fratelli, dove riposare dopo le tante ore passate al lavoro; non una casa, come spetterebbe ad ogni lavoratore agricolo a cui dovrebbero provvedere i padroni delle terre!
La sindacalizzazione combattiva di lavoratori di origine araba, africana e dell'est europeo, non è tollerata dai padroni. Le lotte nella logistica, ricordiamo anche l’omicidio del sindacalista Abdel Salam a Piacenza, e le lotte nelle campagne del meridione sono l'esatto contrario dello stato di passività di buona parte della classe operaia.
Oggi più che mai, la Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni della gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti della questione meridionale producono i frutti più nefasti.
il mondo non si divide in italiani e stranieri, ma «in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri» (Don Lorenzo Milani)
 

venerdì 1 giugno 2018

2 giugno, Festa dell'Italia Repubblicana e Antifascista


La guerra è "terra di nessuno"

Convocazione del Consiglio Comunale

Quarant'anni di Legge 194 in Lombardia: i diritti continuano ad essere negati

Il 66,1% dei ginecologi sono obiettori, le interruzioni di gravidanza sono in calo ma il numero di obiettori rimane costante, purtroppo. Questa l’estrema sintesi dei dati sull’applicazione delle legge 194 in Lombardia, raccolti in un’indagine condotta in ogni presidio della regione dalla consigliera regionale del Partito democratico, Paola Bocci. … Nel 2017 le interruzioni di gravidanza sono state 13499, 331 in meno che nel 2016 quando erano state 13830. “Un dato positivo che sta a significare innanzitutto che, a 40 anni di distanza, la legge 194 è ancora attuale, efficace e capace di raggiungere l’obiettivo che si era data, ossia ridurre il ricorso all’aborto”.
... La presenza di medici ginecologi obiettori infatti resta quasi invariata. Nel 2017 erano il 66,1%, a fronte del 68,2%, del 2016. In ben 5 ospedali Gallarate, Iseo, Oglio PO, Sondalo e Chiavenna sono la totalità. In 11 sono oltre l’80%, solo in 8 sono sotto il 50%. … il 63,9 delle strutture che hanno il reparto di ostetricia e ginecologia effettuano Ivg. In alternativa, le ASST sono costrette a ricorrere a personale esterno, cioè a medici gettonisti, che si recano negli ospedali esclusivamente per questo tipo di intervento e per i quali nel 2017 sono stati spesi 147.504 euro.
“Alla Regione - sottolinea Bocci - chiediamo di attuare la legge 194 in tutte le sue parti, a partire dall’articolo 9 che afferma testualmente ‘gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare gli interventi di interruzione della gravidanza richiesti’”….
I numeri sono ancora più sconfortanti se si guarda all’utilizzo della Ru486, un metodo farmacologico autorizzato dall’Aifa nel 2009, che resta utilizzato solo nell’8,2% delle strutture, mentre la media italiana è del 18,2%. In 32 presidi non è utilizzata in nessun modo. … All’origine del dato negativo c’è il fatto che la Lombardia è al sedicesimo posto in Italia per giorni d’attesa dell’intervento il che significa che passa troppo tempo fra la certificazione e l’effettiva esecuzione dell’Ivg e questo fa scadere i termini (49 giorni) entro i quali è possibile utilizzare il farmaco. … negli ospedali lombardi viene applicata in maniera rigida l’indicazione nazionale, peraltro non vincolante, che prevede tre giorni di ricovero, a differenza dell’Ivg chirurgica che è eseguita in day hospital. Nell’analisi dei dati saltano all’occhio però alcune eccezioni, come ad esempio il presidio ospedaliero di Lodi e quello di Mantova, dove l’impiego della Ru486 è molto alto, rispettivamente nell’83% e nel 58,2% dei casi.
Dare piena applicazione alla legge 194 non significa solo garantire il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza ma anche e soprattutto promuoverne la prevenzione. Ma anche in questo caso Regione Lombardia disattende la legge. I consultori pubblici che dalla loro istituzione hanno svolto un ruolo centrale nell’educazione alla contraccezione e quindi alla prevenzione dovrebbero essere secondo la legge 1 ogni 20 mila abitanti ma la Lombardia è ben lontana dal rispetto dei parametri, anzi si classifica ultima in Italia con solo 0,3 strutture per abitante, a fronte, per esempio, dell’1,1 della Toscana e della Basilicata.
La carenza di strutture che promuovono la prevenzione, soprattutto tra i soggetti più disagiati, è dimostrata anche dal dato relativo alle donne extracomunitarie che rappresentano il 34,8% di quelle che ricorrono all’Ivg, a fronte di una presenza minoritaria sul totale della popolazione femminile. …
Dietro la Lombardia c’è solo la Provincia autonoma di Bolzano, che non ha nemmeno un consultorio pubblico … A questo risultato si è arrivati dopo anni di tagli al numero dei consultori pubblici: erano 178 nel 2005, 152 nel 2010, 148 nel 2014 e via via fino ai 141 del 2017. Un calo che fa il paio con il boom di quelli privati accreditati: 44 nel 2005, 64 cinque anni dopo, 92 nel 2014 e 100 l’anno scorso. Strutture spesso legate a istituzioni cattoliche dove contraccezione e aborto sono un tabù.

domenica 27 maggio 2018

28 maggio 1974 - 28 maggio 2018: 44 anni dalla Strage fascista di Piazza della Loggia

28 maggio 1974 – 28 maggio 2018

Brescia commemora

  Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni

  Livia Bottardi Milani, 31 anni

  Euplo Natali, 69 anni

  Luigi Pinto, 25 anni

  Bartolomeo Talenti, 56 anni

  Alberto Trebeschi, 37 anni

  Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni

  Vittorio Zambarda, 60 anni


Nessuno spazio ai fascisti

Dopo quanto è successo l’anno scorso, con le forze dell’ordine che hanno protetto i fascisti e manganellato gli antifascisti che protestavano in modo non-violento (tre antifascisti feriti), gli antifascisti bergamaschi e bresciani, assieme all’intera comunità loverese, sono tornati a manifestare per impedire che i neo-fascisti tornassero a sfilare a Lovere con i loro simboli (illegali) fin dentro il Cimitero davanti alle tombe dei Partigiani e al Memoriale dei Tredici Martiri.
Le autorità preposte nemmeno quest’anno hanno vietato – come invece richiesto con forza anche dal Coordinamento antifascista del Sebino e delle Valli bresciane e bergamasche – le iniziative annunciate a Lovere sabato 27 maggio dai gruppi neofascisti. Come è noto, tali gruppi – con il pretesto di commemorare due repubblichini della legione nera “Tagliamento”, giustiziati dai partigiani all’indomani della fine ufficiale della seconda guerra mondiale – cercano solo visibilità esibendo i loro simboli di violenza.
Il loro obiettivo è quello di insultare – spingendosi appunto fino alle tombe dei Partigiani – la memoria antifascista del paese di Lovere che, il 17 giugno 1945, vide sfilare le bare dei 13 giovanissimi Partigiani catturati dalla “Tagliamento”, torturati e fucilati nel 1943 davanti alla popolazione.
Alle provocazioni dei neo-fascisti, tanto più pesanti in quanto inserite in un più generale contesto di aggressività, intolleranza, xenofobia, anche quest’anno è stata data una risposta pacifica ma ferma, riaffermando i valori di pace, democrazia e libertà che ci sono stati consegnati dalla Lotta di Liberazione e dalla Costituzione Antifascista.

C’è ancora bisogno di scegliere! Questa è una manifestazione contro la stanchezza, contro la rassegnazione, contro la sottovalutazione. Questa è una manifestazione contro l’indifferenza.

“L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la materia bruta che strozza l’intelligenza. Il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare leggi che solo la rivolta poi potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra assenteismo e indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.”

Questa è la ragione della manifestazione di Lovere: perché la sottovalutazione spaventa, molto più delle manifestazioni dei neofascisti che tutti gli anni sperano, appunto, nell’indifferenza.


Questi i nomi dei tredici martiri:

Francesco Bessi,
Giulio Buffoli,
Salvatore Conti,
Andrea Guizzetti,
Eraldo Locardi,
Vittorio Lorenzini,
Guglielmo Macario,
Giovanni Moioli,
Luca Nikitsch, slavo,
Ivan Piana,
Giuseppe Ravelli,
Mario Tognetti,
Giovanni Vender.

Il fascismo non è un'opinione, è un crimine!

giovedì 24 maggio 2018

Solidarietà al popolo palestinese

Mentre Israele e Stati Uniti festeggiavano il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, decisione che è un atto di guerra vero e proprio nei confronti della popolazione araba e in violazione del diritto internazionale, a Gaza le forze israeliane, seminavano la morte tra le centinaia di migliaia di Palestinesi, tra cui molti anziani, donne e bambini, che pacificamente protestavano per il diritto al ritorno, per la fine dell’assedio e contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.
Sul terreno sono rimasti oltre 60 civili palestinesi uccisi, tra cui 6 minorenni e un disabile su sedia rotelle, oltre 2.700 feriti, tra cui 203 bambini, 78 donne, 8 giornalisti e 11 paramedici. Almeno 150 i feriti in gravissime condizioni. (Ministero della Salute)
Ospedali da campo, ambulanze, personale medico e sanitario sono stati deliberatamente presi di mira impedendo loro di avvicinarsi ai feriti. 
La responsabilità prima di questi crimini contro l’umanità è dello Stato di Israele, braccio armato del blocco americano nella zona, che in modo sistematico sta operando un genocidio, ma anche dell’Unione Europea e di ciascuno dei suoi paesi che continuano a garantire l’impunità di Israele, nonostante le sterili condanne.
Il Governo Italiano è complice di questo massacro e lo ha dimostrato facendo partire il 101° Giro d’Italia da Israele in cambio di 16 milioni di euro stanziati da Israele al gruppo RCS Mediagroup S.p.A, per l’organizzazione del Giro nascondendo e giustificando la sua politica di occupazione e apartheid. Inoltre Il Governo italiano in questi ultimi anni è diventato anche il primo esportatore di armi europeo in Israele. Il 59% delle armi vendute in Medio Oriente sono italiane!
L’Italia deve ritirare tutte le esportazioni di armi del Governo Israeliano, deve ridurre la spesa militare e uscire dall’accordo criminale del Patto Nato!

Prime valutazioni sul famigerato "Contratto di Governo"

Settantaquattro giorni dopo le elezioni del 4 marzo, la telenovela della formazione del nuovo governo pare giunta al suo epilogo. Dopo avanzamenti, arretramenti, proclami, annunciazioni e dichiarazioni più o meno in libertà, anche il famoso, o meglio, famigerato “Contratto di Governo” è definito.

Il quadro che ne emerge, è inquietante. Non abbiamo qui lo spazio per analizzare nel dettaglio il programma espresso da Lega e M5S. Tuttavia, sarà sufficiente indicare i punti principali dell’accordo, quelli che ne riassumono la logica costitutiva e ne esprimono la natura fondamentalmente reazionaria e di destra, tenendo conto che le singole misure non possono essere considerate separatamente, ma nella loro ispirazione complessiva, in cui sono connesse in modo organico:

Giustizia – non è a caso che cominciamo da questo punto. È forse l’autentico marchio di fabbrica di questo governo nascente. È qui che la natura poliziesca a fortemente autoritario-repressiva di questa compagine emerge in tutta la sua nettezza. Colpisce l’eliminazione del c.d. trattamento minorile, che equipara di fatto il trattamento delle fattispecie penali tra giovani (giovanissimi?) e adulti. Collegata alla perenne giaculatoria della “certezza della pena”, emerge la volontà di cancellare l’abrogazione e la depenalizzazione dei reati (alcuni dei quali sono oggi semplici illeciti amministrativi e civili), cancellare la non-punibilità per i reati lievi secondo l’attuale giurisprudenza e l’estinzione del reato per condotte riparatorie. Da ciò discende la necessità di costruire nuove strutture carcerarie, la cui previsione è contenuta nell’accordo, il cui regime sarebbe peraltro fortemente irrigidito, configurandosi come vero e proprio carcere duro, a cui si aggiungerebbe un inasprimento del 41 bis. Ciliegina sulla torta è la c.d. legittima difesa, che verrebbe sostanzialmente liberalizzata. È inoltre prevista una stretta sulle “occupazioni abusive”. Ciliegina sulla torta: è prevista la “riduzione dell’impunità” per “crimini particolarmente odiosi”, come il furto, la rapina e la truffa. Non è difficile immaginare in cosa ciò si traduca praticamente: l’ulteriore persecuzione delle figure sociali più fragili e deboli, in un contesto di aggravamento della condizione sociale.

Immigrazione – insieme al primo punto, è un altro marchio di infamia. L’immigrazione è considerato un fenomeno “insostenibile” per l’Italia. Si prevede il superamento in senso peggiorativo degli accordi di Dublino, al fine di riallocare gli immigrati quanto più è possibile in altri paesi europei. Si prevede altresì di rivedere le missioni comunitarie nel Mediterraneo allo scopo di ridurre “l’approdo delle navi utilizzate per l’operazione nei nostri porti nazionali” e, quindi, la “pressione dei flussi”. Si confermano gli accordi con i paesi terzi, come la Libia, nei quali dovrebbe avvenire l’ammissibilità delle domande di asilo e protezione internazionale, con l’immancabile foglia di fico della “piena tutela dei diritti umani”. È prevista l’accelerazione della procedura sui rimpatri, che è evidentemente considerata prioritaria, con l’istituzione di nuovi CIE, gestiti dalle Regioni, in cui mantenere una vera e propria detenzione fino a un massimo di diciotto mesi. Di fatto una carcerazione (malamente) mascherata. Succulenta anche la disposizione secondo cui le prediche religiose (con un riferimento prevalente al culto islamico…) dovranno essere svolte in lingua italiana… Il soggetto immigrato viene quindi considerato e trattato come un pericolo, alla meglio come un ospite indesiderato di cui disfarsi il prima possibile. Ben si comprende che queste misure farebbero aumentare ancor di più il numero di vittime nel Mediterraneo e peggiorerebbe ulteriormente le condizioni di vita delle immigrate e degli immigrati nel paese.

Difesa – è prevista una ridefinizione delle missioni all’estero. Questo NON ha nulla che vedere con la pace, ma è semplicemente una misura di razionalizzazione nella dislocazione dei contingenti italiani all’estero per meglio difendere gli “interessi nazionali”, cioè, in particolare gli interessi delle grandi multinazionali dell’energia, delle telecomunicazioni e dei servizi per le quali, non a caso, si prevede anche un rafforzamento della presenza pubblica nelle azioni tramite Cassa depositi e prestiti. A sua volta, ciò NON ha nulla a che fare con le nazionalizzazioni, ma è un modo di difendere gli interessi strategici dello Stato italiano nella competizione internazionale. Altro punto decisivo, collegato strettamente alla difesa degli interessi strategici dello Stato italiano, è la piena tutela dell’industria nazionale della difesa con la progettazione di navi, aeromobili e sistemi hi-tech.

Fisco/Lavoro/Pensioni – la flat tax con aliquota unica per le persone fisiche non è, in buona sostanza, confermata, ma lo è una forte riduzione della (già magra) progressività fiscale. Due aliquote IRPEF, al 15% e al 20%, comprese le partite IVA e una sola aliquota, del 15%, per le società. È prevista anche una “no-tax area” per i redditi bassi (non si capisce però quanto bassi…). È evidente che i redditi medio-alti, soprattutto quelli verso la parte più alta dello spettro, saranno fortemente avvantaggiati, per non parlare delle imprese, mentre i lavoratori e le lavoratrici saranno proporzionalmente ulteriormente penalizzati. Per quanto riguarda il mitico reddito di cittadinanza, è fissato in una cifra di 780 euro mensili, ma la condizionalità è molto forte: la misura è orientata al reinserimento lavorativo, con l’obbligo di accettare oltre la quarta proposta lavorativa purchessia, pena il decadimento del beneficio, ed è subordinata alla riforma dei Centri per l’Impiego. Ciò vuol dire che la misura è analoga a quella di altri sistemi in vigore in alcuni paesi dell’UE, in cui le (magre) misure di sostegno al reddito, sono esclusivamente finalizzate al disciplinamento della forza-lavoro e dell’esercito industriale di riserva. Il Job’s Act è semplicemente riconfermato e, anzi, è prevista la reintroduzione dei voucher. Sul piano delle pensioni, non c’è alcuna abrogazione della Fornero, ma un semplice “stop”, con la regola dei 100, cioè la somma aritmetica dell’età anagrafica e l’età dei contributi (in un contesto in cui sarà sempre più difficile maturare i contributi necessari, data la sottoccupazione strutturale di massa, o disoccupazione mascherata). Particolarmente interessante è menzionare la prevista istituzione di una Banca degli investimenti, intesa essere uno strumento di sostegno alle PMI (che sono l’hard-core della base sociale della Lega e del M5S), per l’internazionalizzazione, a beneficio della competitività azienda nell’ambito di filiere transazionali di valore, fortemente integrate e soggette a un enorme pressione competitiva. È prevista inoltre la costituzione di un fondo di garanzia per le PMI atto a favorire il risparmio patrimoniale adeguato a sostenere i sempre più stringenti requisiti per il credito. (Regole di Basilea, I, II ,III e IV).

Non entriamo nel dettaglio delle proposte su Unione Europea e debito, anche perché sono molto vaghe e prevedono un generico impegno alla creazione di strumenti per la riduzione dello stock del debito pubblico, un ricorso “appropriato” al deficit e una riforma della governance europea. È evidente, però, che si tratti di un ammorbidimento delle proposte effettuate in campagna elettorale, per l’esigenza di contemperare la difesa degli interessi della base sociale di riferimento con quelli della media e grande borghesia nazionale (con proiezione internazionale), che non vede di buon occhio deviazioni eccessive da regole contabili e di bilancio adatte a difendere il quadro complessivo dei suoi interessi (e non come semplice diktat dell’UE). D’altro canto, la cifra di fondo del programma giallo-verde è una continuazione delle politiche di austerità (sociale) con altri mezzi che non con il neoliberismo classico. In effetti, le stesse radici sociali piccolo-borghesi spingono a una configurazione neo-protezionista e neo-nazionalista, entro i limiti in cui politiche sovraniste sono oggettivamente possibili, nel quadro del capitalismo a dominanza finanziaria. Lega e M5S si trovano quindi in una posizione decisamente scomoda, date le loro caratteristiche, ed è quindi prevedibile che questo nuovo governo sarà sottoposto a tensioni anche rilevanti nel medio periodo.

Da punto di vista sociale e politico assisteremo a una nuova riduzione dei diritti democratici, un’ulteriore stretta autoritaria e patriarcale, una spinta ulteriore all’individualizzazione e alla rottura dei cosiddetti “corpi intermedi” in direzione dell’approfondimento della corporativizzazione, un ulteriore peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro di settori importanti del proletariato, con una particolare recrudescenza sul mondo del lavoro immigrato (in particolare nelle fabbriche del Centronord e nelle campagne meridionali). Il giudizio su questi due partiti e su ciò che rappresentano non può che essere dunque una stroncatura senza appello. Così come il giudizio è altrettanto duro sulle capacità del loro personale politico, la cui mediocrità è pareggiata soltanto dalla ferocia antioperaia e contro i più deboli, i subalterni, gli inermi.

Avanti cheminots!

Il silenzio tombale dei media italiani ci impedisce di essere informati su quanto accade oltralpe: il governo Macron sta tentando di privatizzare le ferrovie francesi, con i soliti pretesti falsi di costi eccessivi e inefficienza e con l’obiettivo reale di fiaccare la resistenza di uno dei settori più avanzati della lotta di lavoratrici e lavoratori in Francia. Il progetto, denominato “patto ferroviario” marcia insieme con una riforma classista dell’accesso all’università e una riforma razzista e repressiva della legge sul diritto d’asilo. In sintesi, Macron, come i suoi omologhi europei, va alla guerra contro i poveri; ma non ha fatto i conti con la resistenza, la creatività, l’inventiva degli cheminots, che uniti a tutto il popolo che protesta stanno rendendo i sonni del giovane presidente francese molto agitati.

Hanno calendarizzato due giorni di sciopero ogni tre, fino a fine giugno, causando problemi di circolazione costanti. Per guadagnare il sostegno dei settori popolari, oltre ad informarli sul disegno di smantellamento del governo, li aiutano concretamente, collaborando con altri operai per restituire, ad esempio, la corrente elettrica alle famiglie morose, oppure bloccando la riscossione del pedaggio sulle autostrade. Forme di lotta creativa che hanno pagato in termini di consenso: la cassa di resistenza dei ferrovieri ha raccolto, finora, oltre un milione di euro, dono di milioni di solidali che hanno compreso che la loro lotta, e la loro vittoria, è la vittoria di tutte e tutti; la sconfitta, ugualmente, sarebbe generalizzata.
Per un trasporto pubblico degno di questo nome, per la tutela dei diritti, della salute, della sicurezza, dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori del settore.

Festa della Resistenza e della Legalità


martedì 22 maggio 2018

Quarant'anni di legge 194


Era il 22 maggio 1978 quando in Italia fu promulgata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, dopo un’aspra battaglia che spaccò in due il Paese. Quarant’anni dopo, le donne incontrano ancora molti ostacoli e il loro diritto a scegliere è tutt’altro che garantito.
Il nodo è quello dell’obiezione di coscienza di medici e infermieri. Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, con dati del 2016, i ginecologi obiettori nelle strutture in cui si praticano interruzioni di gravidanza sono oltre il 70%, in lieve aumento sul 2015 (+0,4%). Le punte più alte toccano alle regioni del sud, spesso oltre l’80%, con il record del Molise, dove gli obiettori sono al 96,9%. Nell’Italia centrale si va oltre il 70%, a eccezione della Toscana, così come in Lombardia e Veneto, e oltre l’84% nella Provincia di Bolzano. Se a questo si aggiunge che solo in sei strutture con un reparto di ginecologia e ostetricia su dieci si praticano interruzioni volontarie di gravidanza (84.926 nel 2016, in calo del 3,1% rispetto al 2015), in molte regioni il diritto garantito dalla 194 è di fatto negato. Ci sono strutture dove l’obiezione è totale e altre ridotte a catena di montaggio dell’aborto, con singoli operatori che arrivano a praticarne 400 all’anno.

Nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil, ha richiamato l’Italia sia per le difficoltà di applicazione della legge sia per la «discriminazione» nei confronti del personale sanitario non obiettore. L’anno dopo ha fatto lo stesso il comitato dei diritti umani dell’Onu, sottolineando come questi ostacoli portino a un aumento degli aborti clandestini. Con i suoi rischi e le sue tragedie. È la stessa legge 194, del resto, a imporre che «l’espletamento delle procedure» e «l’effettuazione degli interventi richiesti» debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente.

Ci sono donne costrette a “emigrare” perché nella provincia di residenza i tempi di attesa sono troppo lunghi, altre non vengono informate adeguatamente sui loro diritti, altre ancora vengono invitate a rivolgersi ai centri privati. Il tempo si accumula e in molti casi diventa impossibile evitare l’intervento utilizzando la pillola abortiva Ru-486.
E in futuro? «I non obiettori hanno in media 50-60 anni», racconta un medico che abbiamo incontrato a Palermo, mentre gli specializzandi di ginecologia hanno pochissime occasioni di fare pratica. Così «nel giro di dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».

«Il problema è che in Lombardia non esiste un numero verde o una pagina web istituzionale che dia informazioni chiare su quale ospedale scegliere, che documenti portare, a che ora presentarti», commenta Eleonora Cirant, ricercatrice indipendente che lavora per i Consultori privati laici di Milano. «Un tempo il punto di riferimento erano i consultori, ma oggi con la diffusione dei centri religiosi è tutto diverso». I consultori confessionali lievitano in tutta la regione, con un aumento del 16% dal 2012 al 2017. Con impatto anche sulle tasche dei cittadini, visto che Regione Lombardia rimborsa comunque le visite, ma con somme più alte per incontri psicologici, educativi o di gruppo (normalmente svolti nei centri religiosi) e più bassi per le visite ostetriche o ginecologiche (cuore dei consultori pubblici). Risultato, in posti dove la 194 è come se non esistesse, gli assegni del Pirellone arrivano con più zeri. A Milano ci sono 18 consultori legati alle Ast e 15 accreditati. Di questi ultimi, tre sono laici mentre 12 fanno capo a istituzioni religiose. In sintesi, in uno su tre contraccezione e aborto sono tabù.
Ostacoli e complicazioni aumentano per le donne straniere, che spesso incappano nei consultori religiosi del tutto inconsapevolmente. «Gli ospedali spesso chiudono loro la porta in faccia, così si procurano l’aborto con farmaci che possono ridurle in fin di vita», racconta Tiziana Bianchini della Cooperativa lotta contro l’emarginazione. Molte nigeriane vittime di tratta e costrette a prostituirsi in strada «raccontano di essere state rimandate a casa». Ma accade anche a richiedenti asilo regolarmente soggiornanti in Italia. A loro non resta che provare i consultori, ma nello slalom tra religiosi e obiettori «i giorni passano e si può arrivare al superamento del termine di tre mesi». Un meccanismo che incrementa gli aborti clandestini. «Non dobbiamo pensare che chi non riesce a interrompere una gravidanza negli ospedali pubblici terrà il bambino. Semplicemente, abortirà in modo illegale, pagando molti soldi o mettendo a rischio la sua vita», chiarisce Bianchini. Per esempio con il Cytotec, un farmaco per prevenire le ulcere gastriche. Compressa dopo compressa, «essendo un anticoagulante provoca emorragie violentissime, tanto che molte donne che lo hanno assunto a scopo abortivo sono finite in ospedale, diverse in pericolo di vita. L’aborto è un diritto – chiude Bianchini – nessuna donna dovrebbe rischiare la vita per farlo».

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, rispondendo a un’interrogazione del 2017, ha affermato che, secondo le stime, ogni anno dalle 12 alle 15 mila donne italiane e dalle 3 alle 5 mila straniere abortiscono clandestinamente, in cliniche o studi medici fuorilegge.
Anche i farmacisti obiettano, peccato che per loro la 194 non preveda questa opzione. L’articolo 9 la limita al «personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie».

L’obiezione negli ospedali non è solo di coscienza, ma anche economica, spiega Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil Medici. Se in un reparto c’è un solo non obiettore, «passerà il suo tempo a fare aborti e non potrà occuparsi di altro o fare carriera». «E verrà isolato», aggiunge Lisa Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna. Nella maggior parte degli ospedali di Roma, il primariato di ginecologia è affidato a medici provenienti da strutture del Vaticano o dell’Opus Dei.
Nel frattempo, il laico Policlinico Umberto I ha visto ridursi pesantemente l’attività dello storico «repartino» Ivg, che negli anni Settanta fu occupato per alcuni mesi da un collettivo femminista. Chiuso per un periodo quando l’ultimo medico non obiettore è andato in pensione, ha poi riaperto, ma con attività ridotta: 235 le interruzioni nel 2017, 42 le Ru. «È un policlinico universitario, l’unico a Roma con repartino Ivg: gli altri due non ce l’hanno neppure», dice Serena Fredda di Non una di meno. «Questo è un problema per le prossime generazioni di medici».

Secondo il ministero della Salute, su 15 strutture ospedaliere, in Calabria, solo sette praticano l’interruzione di gravidanza, e all’ospedale di Lamezia su 12 medici solo due non sono obiettori. «È un lavoro con un rischio chirurgico e anestesiologico», chiosa la Ermio. «Se si può evitare, perché farlo?». (gz)
L’obiezione, fra l’altro, non sempre ha a che vedere con motivi etici. «Il vero problema sono i soldi. Per molti non è conveniente assumersi il rischio di un’operazione in più se si viene pagati comunque allo stesso modo – riassume Ardizzone – Gli obiettori dovrebbero prestare un servizio alternativo per la collettività, nei consultori o a fare prevenzione nelle scuole».

Nell’efficiente Veneto, ci sono picchi di obiezione al 100%, come ad Adria e nell’Est veronese. «L’obiezione aveva senso quando è stata fatta la legge – denuncia Mario Puiatti, presidente nazionale dell’Aied (Associazione italiana per l’educazione demografica) e responsabile delle strutture di Udine e Pordenone – Oggi, invece, chi non è d’accordo semplicemente non deve fare la specializzazione in ginecologia». Lui è un pioniere, che prima dell’approvazione della 194 praticava già l’intervento «inviando una lettera di avviso alla Procura della repubblica. Non si poteva fare, eppure nessuno è mai venuto a controllare». Nel Nordest, continua, «il punto di debolezza è il tempo: gli ospedali, per esempio, vogliono le ecografie anche se non sono obbligatorie. La condizione psicologica delle donne viene completamente sottovalutata».
I diritti, conclude, «non piovono dal cielo, bisogna conquistarseli, se serve anche con la disobbedienza civile e poi lottare per mantenerli».

lunedì 21 maggio 2018

Alla piaga delle morti sul lavoro non si può più rispondere solo con la retorica


Basta fare una ricerca su Google, cliccando “incidente alle Acciaierie Venete di Padova” (di proprietà dell’attuale presidente di Federacciai), per rendersi conto che non c’è nulla di casuale nel devastante incidente avvenuto la mattina di domenica 13 maggio presso lo stabilimento di Padova.

La prima notizia racconta della morte di Mohamed Awad Hassan Abd El Fattah. Nell’agosto del 2013 l’operaio egiziano di 43 anni, precipita in una buca camminando in una passerella degli impianti durante il turno di notte. Pochi mesi prima, l’8 maggio del 2013, era morto nella stessa azienda, ma a Sarezzo (BS), un padre di famiglia di 56 anni, Matteo Canta. L’operaio italiano, in questo caso, precipita in una vasca di raffreddamento del reparto laminatoi.

Nel luglio 2017 è toccato a due operai veneziani, Andrea Brigato di 37 anni e Federico Fava di 47 anni, rischiare la morte dopo essere precipitati da un carroponte nello stabilimento di Padova delle Acciaierie Venete.

L’ennesimo grave incidente il 13 maggio scorso: una siviera, contenente 90 tonnellate di acciaio fuso, è crollata – a un metro di altezza da terra – per la rottura di un perno. Gli schizzi di magma hanno investito quattro operai, due italiani e due stranieri, ustionandoli tutti gravemente: Bratu Marian (il più grave), Vivian Simone, Di Natale David e Federic Gerard.

La sequenza interminabile di morti sul lavoro e d’incidenti gravi sta provocando una giusta indignazione, grazie alla conoscenza degli eventi e alla diffusione tramite i social delle notizie non più occultabili dai media come spesso succedeva in passato. Sono tante le persone che chiedono si metta fine a questo stillicidio di morti sul lavoro. La parola più ripetuta è “ora basta”!

Il rischio che all’indignazione si risponda solo con la retorica, con frasi fatte (come la mancanza di cultura della sicurezza), con reazioni solo ex-post… Se continuiamo cosi, specie come sindacati (confederali e non) finiamo per creare solo un senso di fastidio o di angoscia. Non ci sono risposte che possano interrompere questo stillicidio da un giorno all’altro. Ma esistono richieste mirate (che non siano solo l’aumento dei controlli e delle sanzioni) che possono concretamente invertire la tendenza.

La prima riguarda una misura fiscale alternativa alla flat tax e complementare ad altre misure di sostegno al reddito: consentire la deducibilità fiscale alle imprese per tutti gli investimenti (di qualsiasi natura tecnologica-impiantistica, ergonomica-organizzativa e formativa) finalizzati al miglioramento della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Accompagnare questa misura con un forte aggravio assicurativo per le imprese in cui si registrano infortuni mortali e invalidanti, oltre malattie professionali. Dopo questa misura nessuno parlerebbe più della prevenzione solo come un costo e non come un investimento.

La seconda riguarda l’utilizzo coerente del saldo attivo accumulato negli anni dall’INAIL (oltre 32 miliardi di euro), oggi in mano alla Tesoreria di Stato che ne dispone impropriamente per coprire altre spese. Dal 2006 al 2015 la media di avanzo annuale della Gestione Industria dell’INAIL (il 90% delle entrate correnti) è stata di ben 1,2 miliardi di euro. Questi soldi devono tornare a imprese e lavoratori (l’assicurazione infortuni è una forma di salario indiretto come i contributi previdenziali) riducendo il cuneo contributivo e destinando più risorse sia alle prestazioni assicurative in termini di risarcimenti, cure e riabilitazioni, sia agli incentivi alle imprese e alle parti sociali per azioni finalizzate alla prevenzione e al miglioramento continuo.

La terza riguarda la destinazione dei Fondi pubblici del MISE (il Ministero dello Sviluppo Economico). Il comparto industriale militare assorbe nel 2018 oltre 3/4 del budget MISE destinato istituzionalmente agli investimenti per lo sviluppo e la competitività di tutte le industrie italiane. Una quota sproporzionata, che supera 3,5 miliardi di euro (+30 per cento rispetto al 2014), a danno di tutti gli altri settori industriali nazionali. Almeno la metà di questi soldi, destinati impropriamente a programmi militari fuori dal Bilancio della Difesa, dovrebbero essere ricondotti a misure di investimento nel campo di Industry 4.0 con un’attenzione specifica alle misure di ergonomia e di miglioramento continuo nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro.

Se la TAV Torino-Lione fosse fermata, non vi sarebbe alcuna penale da pagare

Commissari Governativi, Promotori della Torino-Lione e Presidenti di Regione, giornalisti, politici, per terrorizzare la possibile sospensione/cancellazione del progetto Torino-Lione, si sono affannati a dire che in questo caso l’Italia dovrebbe pagare 2 miliardi di Euro di penalità.

Questa affermazione è FALSA: chiediamo a chi la fa di portare le prove.

Ricordiamo che i Trattati con la Francia del 2001, del 2012 e del 2015 e con la Ue del 2015 :

         non prevedono una data di avvio e di completamento delle opere geognostiche e/o definitive della tratta transfrontaliera,

         non prevedono alcuna penalità in caso di sospensione e/o risoluzione degli accordi.

Ricordiamo invece che l’Accordo con la Francia del 2012 prevede, all’Art. 16, che “La disponibilità del finanziamento sarà una condizione preliminare per l’avvio dei lavori delle varie fasi della parte comune italo-francese della sezione internazionale”. I suddetti accordi possono invece essere emendati. In realtà i lavori definitivi della Torino-Lione non sono mai partiti perché è la Francia che ha messo in pausa la Torino-Lione dal mese di luglio 2017 dato che non dispone dei fondi necessari per l’avviamento dei cantieri relativi alle opere definitive.

Analogamente in Italia deve ancora completarsi l’iter di pubblicazione della delibera Cipe che ha sancito l’ennesima variante del progetto (con lo scavo del Tunnel da Chiomonte anziché da Susa). Questa situazione è stata resa nota dalla Ministra dei Trasporti francese Elisabeth Borne, e lo ha confermato il Presidente della CADA Marc Dendelot (Commissione di Accesso ai Documenti Amministrativi) che nell’Avviso n. 20173469 del 4 dicembre 2017 ha scritto: «La Ministra incaricata dei trasporti ha informato la Commissione che fino ad oggi i lavori definitivi della sezione transfrontaliera non sono stati avviati e che gli stanziamenti finanziari dello Stato (francese, N.d.T.) corrispondenti a questi lavori non sono ancora stati decisi».

Inoltre, nella sua lettera del 17 gennaio 2018 la Commissaria europea ai Trasporti Violeta Bulc, in risposta alla richiesta di chiarimenti del 22 novembre 2017 di un gruppo di eurodeputati, ha riconosciuto che «il finanziamento europeo per la Torino-Lione è stato deciso ed è assicurato solo per il periodo 2016-2019 … e alla fine potrebbe essere riallocato ad altri progetti in base al principio “usalo o perdilo”».

Le attività in corso dal 2002 sono praticamente tutte inerenti lavori propedeutici (studi, progetti, sondaggi, lavori preliminari) che rientrano nel programma già di LTF. Ammontano complessivamente a 1,6 miliardi di euro, di cui a fine 2016 risultavano pagati o impegnati 1,4 miliardi. Nessuno degli appalti attualmente in completamento riguarda lavori definitivi. Questo comprende ovviamente anche le attività in corso in Francia a San Martin La Porte, che non sono qualificate come lavori definitivi ma come sondaggio geognostico. Gli appalti finora assegnati da Telt (di cui la società stessa ha dato notizia con propri comunicati il 17 gennaio e il 1° febbraio 2018) sui lavori definitivi ammontano a 91,4 milioni di euro, meno dell’1% di quanto affermato da fonti governative. Di questi gli unici lavori reali ammontano all’ “astronomica” cifra di 800.000 € (meno dello 0,1%).

Non risultano altri appalti assegnati, pertanto risulta estremamente difficile comprendere come sia possibile affermare che sussistano impegni e/o penali cogenti. Qualora questi fossero effettivi, dovrebbero essere obbligatoriamente scritti a bilancio di Telt.

Invitiamo gli operatori dell’informazione a chiedere questi elementi a chi ha rilasciato tali dichiarazioni!

In conclusione, e alla luce di quanto sopra, riteniamo opportuno che TELT non lanci gare di appalto e contragga qualunque impegno con chiunque fino al momento in cui, nel rispetto dell’Art. 16 dell’Accordo di Roma del 2012, i tre soci finanziatori del progetto Torino-Lione (Ue, Francia e Italia) non abbiano garantito con atti formali (leggi dello Stato) tutti i fondi necessari all’intera realizzazione dell’opera.
(Notav Torino – Presidio Europa)

martedì 8 maggio 2018

Convocazione del Consiglio Comunale


Trame di consapevolezza: Rappresentanza e Democrazia diretta


Pacco bomba nucleare dagli Usa

da il Manifesto, 8 maggio 2018:

La nuova bomba nucleare B61-12 – che gli Usa si preparano a inviare in Italia, Germania, Belgio, Olanda e probabilmente in altri paesi europei – è ormai in fase finale di realizzazione.

Lo ha annunciato il generale Jack Weinstein, vice-capo di stato maggiore della U.S. Air Force, responsabile delle operazioni nucleari, intervenendo il 1° maggio a un simposio della Air Force Association a Washington di fronte a uno scelto uditorio di alti ufficiali e rappresentanti dell’industria bellica. «Il programma sta andando estremamente bene», ha sottolineato con soddisfazione il generale, specificando che «abbiamo già effettuato 26 test di ingegneristica, sviluppo e volo guidato della B61-12».

Il programma prevede la produzione, a iniziare dal 2020, di circa 500 B61-12, con una spesa di circa 10 miliardi di dollari (per cui ogni bomba viene a costare il doppio di quanto costerebbe se fosse costruita interamente in oro).

I molti componenti della B61-12 vengono progettati nei laboratori nazionali Sandia di Los Alamos, Albuquerque e Livermore (in New Mexico e California), e prodotti in una serie di impianti in Missouri, Texas, South Carolina, Tennessee. La bomba viene testata (senza carica nucleare) nel Tonopah Test Range in Nevada.

La B61-12 ha «qualità» interamente nuove rispetto alla attuale B61 schierata in Italia e altri paesi europei: una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili; un sistema di guida che la dirige con precisione sull’obiettivo; la capacità di penetrare nel sottosuolo, anche attraverso cemento armato, esplodendo in profondità.

La maggiore precisione e la capacità penetrante rendono la nuova bomba adatta ad attaccare i bunker dei centri di comando, così da «decapitare» il paese nemico. Una B61-12 da 50 kt (equivalenti a 50 mila tonnellate di tritolo) che esplode sottoterra ha lo stesso potenziale distruttivo di una bomba nucleare da oltre un megaton (un milione di tonnellate di tritolo) che esplode in superficie.

La B61-12 può essere sganciata dai caccia statunitensi F-16C/D schierati ad Aviano, e dai Tornado italiani PA-200 schierati a Ghedi. Ma, per usare tutte le capacità della B61-12 (in particolare la guida di precisione), occorrono i nuovi caccia F-35A. Ciò comporta la soluzione di altri problemi tecnici, che si aggiungono ai numerosi verificatisi nel programma F-35, cui l’Italia partecipa quale partner di secondo livello.

Il complesso software del caccia, che è stato finora modificato oltre 30 volte, richiede ulteriori aggiornamenti. Per modificare 12 F-35 l’Italia dovrà spendere circa 400 milioni di euro, che si aggiungono alla spesa ancora inquantificata (stimata in 13-16 miliardi di euro) per l’acquisto di 90 caccia e il loro continuo ammodernamento. Soldi che escono dalle casse dello Stato (ossia dalle nostre), mentre quelli ricavati dai contratti per la produzione dell’F-35 entrano nelle casse delle industrie militari.

La bomba nucleare B61-12 e il caccia F-35, che l’Italia riceve dagli Usa, fanno quindi parte di un unico «pacco bomba» che ci scoppierà tra le mani. L’Italia sarà esposta a ulteriori pericoli quale base avanzata della strategia nucleare degli Stati uniti contro la Russia e altri paesi.

Non c’è che un modo per evitarlo: chiedere agli Usa, in base al Trattato di non-proliferazione, di rimuovere qualsiasi arma nucleare dal nostro territorio; rifiutare di fornire al Pentagono, nel quadro della Nato, piloti e aerei per l’attacco nucleare; uscire dal Gruppo di pianificazione nucleare della Nato; aderire al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari.

C’è qualcuno, nel mondo politico, disposto a non fare la politica dello struzzo?

lunedì 7 maggio 2018

A sostegno di "Piazzadimaggio" e Comitato "Senza Confini"

Per la Scuola della Costituzione


Questo non è il mio Giro

Il 4 maggio è partito da Tel Aviv il Giro della Vergogna.

Il Giro d'Italia parte dallo Stato di Israele, che occupa abusivamente i territori palestinesi, che conduce una politica coloniale e di apartheid contro un intero popolo, che coi suoi soldati killer arresta, perseguita e uccide donne e uomini, adulti e bambini. La politica violenta e guerrafondaia di Netanyahu minaccia la pace del mondo, in spregio agli allarmi dell' ONU, ma il Giro d'Italia parte da Tel Aviv e Gerusalemme con la benedizione del governo più reazionario della storia di Israele.

È una vergogna assoluta per le istituzioni sportive, la Gazzetta dello Sport che organizza, la Rai che coi nostri soldi paga la manifestazione.

Uno degli sport più popolari viene usato per coprire una selvaggia politica di guerra ed occupazione. Il principio pacifista delle competizioni sportive viene brutalmente e sfacciatamente oltraggiato, nonostante i pronunciamenti di tante organizzazioni internazionali e anche di ebrei contrari alla politica di Netanyahu, che chiedevano altri comportamenti. Ma gli organizzatori del Giro hanno ignorato ogni richiesta di cautela ed equilibrio ed hanno deciso di macchiare di sangue palestinese la Maglia Rosa. Poi sapremo per quali sporchi interessi economici e politici.

L'8 maggio il Giro d'Italia sbarcherà in Italia, in Sicilia. Lo accoglieremo nel nome di Gaza e della Palestina devastate, ovunque esso arrivi, da ovunque parta. Il Giro della vergogna, complice degli oppressori e degli assassini, dovrà sentire per le sue strade la voce del popolo palestinese oppresso.

lunedì 2 aprile 2018

I venerdì dell'Acqua Pubblica


Nei giorni della "resurrezione", il mondo del lavoro continua a contare i propri morti

La mattina di Pasqua gli abitanti di via Calvenzano a Treviglio, dove sorge l’azienda “Ecb”, hanno prima avvertito uno strano odore nell’aria e subito dopo un forte boato seguito da una nuvola di fumo bianco e nero che fuoriusciva dall’azienda. Un’esplosione di un serbatoio per essiccare farine alimentari per pet, dove vengono lavorati gli scarti della macellazione avicola, ha ucciso due operai: Giambattista Gatti, residente a Treviglio, padre di due figli, e Giuseppe Legnani, di Casirate d’Adda, anch’egli con due figli. Un destino beffardo quello dei due lavoratori deceduti, visto che essi non avrebbero dovuto essere al lavoro, per via delle festività pasquali.
I corpi dei due operai sono stati recuperati dai vigili del fuoco e trasferiti all’Istituto di Medicina legale di Bergamo per gli adempimenti disposti dalla Procura. I pompieri hanno lavorato a lungo prima di avere ragione del fumo e delle alte temperature nell’impianto. Hanno fatto ricorso anche ad auto protettori per la respirazione, visto che gli ambienti erano saturi di anidride carbonica. Per quanto concerne il pericolo di allarme ambientale, i fumi che escono dalla cisterna «non dovrebbero essere nocivi», assicura il sindaco di Treviglio. In un comunicato la Cgil denuncia la «preoccupante inversione di tendenza sul versante della sicurezza nei luoghi di lavoro». Il sindacato chiede quindi «che venga al più presto fatta chiarezza sui motivi dell'incidente e che eventuali responsabilità e negligenze siano colpite con il massimo rigore»


Lorenzo Mazzoni, 25 anni, e Nunzio Viola, 52 anni, due lavoratori della “Labromare”, sono morti mercoledì 28 marzo nell'esplosione di un serbatoio di acetato di etile nei Depositi Costieri Neri al porto di Livorno.
In quest’ultima città si assiste, in tema di infortuni sul lavoro, ad una netta e tragica controtendenza rispetto al resto della Toscana: 6 furono i morti nel 2013, ben 11 nel 2016. In calo invece nel resto della regione.
Sorge naturale un accostamento tra la crisi economica vissuta nella provincia labronica e gli infortuni in aumento. Dove la crisi picchia duro, probabilmente c’è un’inevitabile ricerca del profitto da parte dei datori di lavoro e una paura della perdita del posto da parte dei lavoratori stessi. Costretti quindi a obbedire a straordinari, turni massacranti, contratti e livelli con mansioni diverse rispetto a quelle praticate e molto altro.
Per quanto riguarda lo specifico caso del Porto di Livorno gli incidenti mortali sono innumerevoli negli ultimi anni: Dasonor Qallia morto il 15 giugno 2010, Priscillano Inoc investito il 17 marzo di tre anni fa e Gabriele Petrone morto sulla nave “Urania” in bacino soltanto 5 mesi più tardi. Molte furono le promesse di un aumento della sicurezza, rimaste vane. Le leggi sulla sicurezza del lavoro in un periodo di crisi devono essere ancora più severe, mentre in questi anni i vari governi le hanno allentate, oltretutto “lasciando morire” il sistema di controllo.
La questione della sicurezza deve uscire dalla ritualità! La “cultura della sicurezza” è un approccio che scarica sottilmente anche sui lavoratori le responsabilità. Se un “errore umano” rischia di costare la vita a se stesso e/o ad altre persone, vuol dire che va rivisto in toto il “sistema sicurezza” di quell’azienda o di quel luogo di lavoro.

Dall’inizio dell’anno nel nostro paese i morti sul lavoro secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna sono 146. Per l’INAIL i morti sul lavoro nel 2017 sono stati 1029, numero che contiene i lavoratori morti sulle strade e in itinere, ma non gli agricoltori schiacciati dal trattore. Solo negli ultimi tre giorni, oltre alle tragedie di Livorno e Bologna, i morti sul lavoro sono stati 11. Una strage, un bollettino a cui vanno aggiunti anche gravi incidenti sul lavoro. I numeri parlano chiaramente: si tratta di una guerra non dichiarata contro i lavoratori, una vera e propria mattanza.  Le indagini verificheranno le responsabilità, che andranno colpite con il massimo rigore. Di sicuro, però, questi sono i risultati drammatici del fatto che in Italia manca ancora un piano nazionale per la sicurezza sul lavoro, un paese, il nostro, in cui si riscontrano ancora limiti inqualificabili, ritardi insopportabili e gravi inadempienze legislative. Non solo. L’aumento della precarietà, la paura di perdere il posto di lavoro, ritmi sempre più veloci e flessibili sono elementi che hanno reso il lavoro sempre meno sicuro e consegnato i lavoratori al ricatto. E’ giusto che la manifestazione nazionale del Primo Maggio sia dedicata al tema della sicurezza, ma non basta. Occorre una straordinaria mobilitazione nazionale affinché il nuovo Parlamento assuma il tema della sicurezza sul lavoro come centrale e prioritario.

Pezzettini di Pace


La Festa non si vende


Pasqua e Pasquetta: la totale liberalizzazione nel commercio resta un problema ed è sciopero nel commercio

Filcams Cgil: La Corte Costituzionale ha sancito il diritto di astenersi dalla prestazione nelle festività riconoscendo il diritto generale al godimento del giorno festivo

In diverse regioni italiane, sarà sciopero nel commercio per continuare a contrastare le liberalizzazioni delle aperture domenicali e festive nel commercio.

La completa liberalizzazione degli orari e delle aperture domenicali e festive, anno dopo anno, si sta rivelando disastrosa, non ha portato nessun aumento dell’occupazione e nessun aumento dei consumi, come dimostrano i tanti negozi dei centri storici chiusi e le procedure di licenziamento fatte dalle aziende della Grande Distribuzione, anche quelle che hanno scelto il “sempre aperto h24”. Sono peggiorate le condizioni di lavoro, gli orari, la vita delle lavoratrici e dei lavoratori, è aumentata solo la precarietà.

La festa non si vende, è la campagna che da oltre 6 anni la Filcams Cgil Nazionale sta portando avanti per richiedere una regolamentazione delle aperture domenicali nel commercio, ormai allo sbando dopo il decreto Salva Italia.

“È indispensabile un intervento legislativo – la proposta di Legge in materia è ferma in Senato – che modifichi la normativa introdotta da Monti” afferma la Filcams Cgil Nazionale. “È ormai assodato che il sempre aperto non ha contribuito a migliorare né l’economia del settore, né l’occupazione, ma ha solo peggiorato le condizioni di lavoro, complicato la gestione dei piccoli esercenti, e trasformato il centro commerciale in luogo di ritrovo sociale e culturale in alternativa ai centri storici e della vita sociale delle città.”

“Già la Corte Costituzionale ha sancito il diritto di astenersi dalla prestazione nelle festività riconoscendo quindi il diritto generale al godimento del giorno festivo” – un risultato importante legato alle azioni legali sostenute dalla Filcams. A questo è necessario però aggiungere una riflessione su cosa è accaduto nel settore e la revisione delle liberalizzazioni. Azione legislativa e il ruolo contrattuale possono costituire leve per un modello alternativo alle aperture - h 24 e 365 giorni l’anno – che restano un problema di attualità per le lavoratrici ed i lavoratori del commercio.

Fiumi di soldi ad Autostrade e Grandi Opere, mentre il trasporto pubblico locale viene abbandonato a se stesso

Se il tavolo prefettizio non riuscirà ad impegnarsi per recuperare il taglio al tpl, si arriverà quasi sicuramente allo sciopero. È quanto annunciano le Segreterie territoriali sindacali di Cgil, Cisl, Uil, Faisa, Ugl, insieme alla Rsu della Sia. 
I nodi non sciolti prima o poi vengono al pettine. E ora i dipendenti Sia rischiano di pagare il conto degli 1,2 milioni di euro mancanti al trasporto extraurbano per il 2018. Senza quei soldi che non si sa dove prendere, una ventina di lavoratori resteranno a casa. Ma i guai non arrivano mai da soli, e pure il resto dei 490 dipendenti della società dal primo giugno prossimo si troveranno senza contratto integrativo. L’azienda del Gruppo Arriva ha disdetto l’accordo unitario per la nuova Sia conseguente all’accorpamento di Saia – denunciano Rsu e sindacati – e il contratto integrativo rischia di scomparire dalla scena. I sindacati hanno proclamato lo stato di agitazione, e sono pronti allo sciopero. Mercoledì scorso hanno avuto il primo incontro in Azienda, risolto con un nulla di fatto. «Ora attendiamo la convocazione del prefetto, che ha tempo dieci giorni per il tentativo di riconciliazione – dicono Renato Guerra della Cgil e Michele Bisignano dei Cobas -, sarà molto probabile che dovremo andare allo sciopero». Sindacati e Rsu ieri mattina hanno lanciato l’allarme davanti ai cancelli Sia di via Togni, e hanno precisato che senza il contratto di secondo livello, oltre ai benefici economici decadrà pure la parte normativa che regola il servizio con inevitabili problemi di puntualità. E mentre loro pensano a incrociare le braccia, «Sia otterrà i corrispettivi dalla Provincia anche per i servizi non effettuati durante lo sciopero – aggiunge Foloni -. Avevamo già segnalato l’incongruenza all’ex consigliere provinciale con delega ai Trasporti Diego Peli, ma ci ha risposto che la norma è contenuta nel capitolato sottoscritto nel 2005, e non può farci niente». Almeno fino alle nuove gare di affidamento, previste per l’anno prossimo, sarà così. Insomma, s’incrociano due problemi di difficile soluzione. Il segretario Filt Ivano Panzica constata che l’Agenzia del Tpl ha confermato la mancanza degli 1,2 milioni per la gestione 2018, che si traducono in 700 mila chilometri in meno. Se ogni autista copre in media 38 mila chilometri, vuol dire che tra i 18 e i 20 saranno di troppo. I chilometri verranno recuperati con riduzioni del servizio festivo ed estivo, con attestamenti dei pullman ai capolinea della metro. E la riduzione «avrà un effetto devastante sulle fasce più deboli – denuncia Panzica – in una provincia che vorrebbe potenziare e razionalizzare il Tpl». 
... D’altronde le casse del Broletto sono a secco. E in Provincia non capiscono neanche perché debbano pensare loro a tappare i buchi mentre la Regione ha avocato a sé le competenze sui trasporti e si è limitata, il 25 febbraio, a concedere l’autorizzazione a svincolare 2,3 milioni da altri capitoli del bilancio del Broletto per destinarli al Tpl. Che hanno permesso di ridurre il deficit da 3,5 a 1,2 milioni. Il resto non si sa dove prenderlo.

#MissioneFreedomMountain

Nel tardo pomeriggio di venerdì 30 marzo, uomini della guardia di confine francese sono entrati armati nella sala della stazione di Bardonecchia dove operano i volontari di Rainbow4Africa, i mediatori culturali e gli avvocati di Associazione Studi Giuridici Immigrazione.
Rainbow4Africa e ASGI ritengono inaccettabile la grave ingerenza all'operato delle ONG e delle istituzioni italiane. Un presidio sanitario è luogo neutro, rispettato anche nei luoghi di guerra.
Rainbow4Africa agisce secondo principi inviolabili: indipendenza, neutralità, imparzialità e umanità. L'azione degli agenti della Dogana Francese viola tali principi. II comportamento adottato nei confronti del ragazzo nigeriano appare irrispettoso dei diritti umani.
Il dottor Paolo Narcisi, Presidente di Rainbow4Africa, commenta: "Riteniamo questi atti delle ignobili provocazioni. Abbiamo fiducia nell’operato delle istituzioni e della giustizia italiana, che sono state investite della responsabilità di attuare i passi necessari verso la Francia. Il nostro unico interesse rimane assicurare rispetto dei diritti umani dei migranti".
Aggiunge l'Avvocato Lorenzo Trucco, presidente di ASGI: "Ritengo che quanto accaduto sia una gravissima violazione non solo di quel sistema dei diritti umani che dovrebbe contraddistinguere l'Europa, ma anche una violazione dei principi basilari della dignità umana, intollerabile nei confronti di persone venute per richiedere protezione. Si valuterà pertanto ogni possibile azione per contrastare simili comportamenti."

Gaza: decine di migliaia di Palestinesi in marcia per il ritorno. Nonostante Tsahal.


Sedici morti e migliaia di feriti. E’ il bilancio di mercoledì 30 marzo 2018 nella Striscia palestinese di Gaza.

Lacrimogeni, proiettili e colpi d’artiglieria: così Israele ha attaccato e continua ad attaccare decine di migliaia di palestinesi, disarmati, al confine imposto da Tel Aviv con la Striscia di Gaza. Durissimi scontri sono stati segnalati in almeno sei punti del confine arbitrario: Israele spara lacrimogeni e proiettili contro decine di migliaia di palestinesi che non arretrano, rispondendo con sassi, copertoni bruciati e i loro corpi.

La stessa Israele ha imposto ai palestinesi di restare ad almeno 700 metri dal reticolato. L’obiettivo popolare è di restare lì almeno fino al 15 maggio, altra data importante per la Palestina: la Nakba, ossia la catastrofe, nome con cui si indica l’esodo forzato di almeno 700.000 palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima invasione, quella del 1948. Quest’anno sarà il 70esimo anniversario.

RITORNO – La mobilitazione è stata definita la ‘Marcia per il Ritorno’ nell’ambito della Giornata della Terra, un’altra ricorrenza importante, che risale al 1976, quando migliaia di persone, cittadini palestinesi in Israele si riunirono per protestare contro l’espropriazione di altra terra palestinese in Galilea. Il ricordo di quel giorno di resistenza popolare contro il sionismo e le sue politiche coloniali divenne così la Giornata internazionale della Terra palestinese, oggi caricata di un’ulteriore importanza, vista la recente decisione Usa di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, terra occupata anche secondo l’Onu, oltre che per le continue espropriazioni di terra e acqua compiute dai coloni israeliani contro i palestinesi.

Ed anche in questi giorni si registrano nuovi scontri al confine fra Israele e Gaza. Soldati israeliani hanno aperto il fuoco ferendo tre palestinesi vicini a Jabalia, nel nord della Striscia. Poco prima nella stessa zona i militari avevano lanciato lacrimogeni per disperdere alcuni manifestanti.

È il giorno dopo la Pasqua ebraica, in Israele, ma Gerusalemme si prepara a settimane di violenza, come già titolano i quotidiani in prima pagina. La “Marcia per il ritorno” organizzata venerdì nella Striscia di Gaza in vista del 70° anniversario dello Stato d’Israele e l’espulsione dei palestinesi, con la durissima risposta dell’esercito alle molotov e ai lanci di pietre scatenati dai militanti di Hamas (16 morti, mille feriti) interroga il Paese. Lo stesso Jerusalem Post, giornale di orientamento conservatore, si chiede in un’analisi: “L’uso della forza da parte delle forze armate al confine di Gaza è stato legale?”. Intanto il presidente turco Erdogan torna ad attaccare Netanyahu definendolo "un terrorista".

Ferma l'opposizione del governo di Benjamin Netanyahu ed, in particolare, del ministro israeliano alla difesa, Avigdor Lieberman, all’invito fatto sia dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, sia dall’Alto rappresentante europeo, Federica Mogherini, nell’invocare “un’inchiesta indipendente e trasparente”. Il ministro israeliano ha liquidato la questione: “Non ci sarà nessuna commissione d'inchiesta. Non ci sarà nulla del genere qui. Non collaboreremo con alcuna commissione d'inchiesta”. Al Palazzo di vetro di New York, sabato il Consiglio di sicurezza si era riunito con la proposta di condannare la reazione dell’esercito di Israele. Ma il progetto di una dichiarazione negativa è stato bloccato dall’intervento degli Stati Uniti.